Tante denominazioni per il non profit
L’insieme dei soggetti privati senza scopo di lucro ha assunto differenti denominazioni in base al contesto, all’ambito disciplinare, alla lingua o all’approccio culturale. Si pensi a espressioni come “Terzo Settore”, “Privato sociale”, “enti senza scopo di lucro” o “Non profit”.
Si dice “Non profit” o “No profit”
E’ opportuno rilevare come, sebbene in alcuni casi la dizione “No profit” sia usata come equivalente a “Non profit”, essa non sia corretta.
Le due modalità di esprimere la negazione hanno sfumature differenti.
“Non profit” è la contrazione di “Not for profit”, quindi “Non per profitto”; è evidente come non si neghi in toto la presenza di profitti bensì si affermi come questa non sia l’obiettivo ultimo di un ente che non può redistribuire i profitti.
La locuzione “No profit” sottintende invece una negazione assoluta, perentoria nel rifiutare l’ipotesi di produrre un qualunque profitto; peraltro, augurarsi che un ente non arrivi ad avere un saldo positivo a fine anno significa, nella maggior parte dei casi, renderla non operativa ad inizio anno fintanto che non riesca a raccogliere i primi fondi.
La presenza di un profitto – che non può essere distribuito – può essere un indice di oculata amministrazione; lo stesso profitto servirà nell’anno nuovo a continuare le attività sociali oppure, con delibera dell’assemblea (per le associazioni) o del Consiglio di Amministrazione (per le fondazioni), potrà essere vincolato per impieghi futuri o come riserva.
Ricordiamo che e diverse norme che regolano il non profit sono molto severe sulla questione del divieto di distribuzione dell’utile e ne riportano i casi distinguendo due categorie:
- distribuzione diretta: quando ci si dividano utili, fondi o riserve dell’ente;
- distribuzione indiretta: quando si assegnino a determinate persone (consiglieri, controllori, lavoratori ecc.) emolumenti o stipendi che eccedono un certo quantitativo (cfr. art 8, c 3, D Lgs 117/17).