“Leader di settore”. Quante volte abbiamo sentito questa espressione soprattutto da parte di venditori e promoter? Quasi a voler rimarcare una qualità che va oltre quella intrinseca del bene ed è invece riconducibile all’autorevolezza del produttore, sia perché occupa una fetta consistente del mercato sia perché esercita un’influenza sulle dinamiche di sviluppo. In sintesi una leadership che deriva dalla “massa critica” e dalla capacità di orientamento. Questa metafora si può traslare, con le dovute cautele, anche al campo dell’Impresa Sociale e del suo “leader di settore” ovvero la cooperazione sociale. I dati infatti parlano chiaro: in termini di unità, addetti, giro d’affari, utenti serviti le cooperative sociali giocano ancora oggi la parte del leone. Ma non solo: anche in termini “culturali” la cooperazione sociale ha un forte posizionamento in quanto pioniere dell’imprenditoria sociale grazie a investimenti in ricerca e sviluppo, formazione, accompagnamento che hanno consentito di affermare il proprio modello a livello internazionale, in particolare per quanto riguarda l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
A fronte di questi inequivocabili riscontri è interessante analizzare come la cooperazione sociale abbia fin qui giocato la sua posizione di leadership nell’ambito della Riforma del Terzo Settore. Un’occasione importante perché in questo progetto d’innovazione normativa c’era (e c’è ancora perché il processo è ancora in atto) la possibilità di rimettere mano allo statuto dell’Impresa Sociale come veicolo imprenditoriale di un Terzo settore finalmente riconosciuto come un comparto a se stante accanto alle istituzioni dello Stato e del mercato. Non si trattava semplicemente di aggiustare la vecchia normativa sull’Impresa Sociale approvata nella prima parte degli anni duemila e generatrice di un impatto piuttosto limitato. La partita è ora legata a una più ampia riforma istituzionale all’interno della quale questa forma d’impresa può rappresentare una leva per far crescere l’impatto del Terzo settore anche come produttore di beni e servizi di utilità sociale che rispondono a obiettivi di interesse generale.
Quali sono i risultati di questo esercizio di leadership della cooperazione sociale? L’impressione è che abbia prevalso l’orientamento a rafforzare la propria comfort zone rispetto alle altre tipologie organizzative che possono ottenere su base volontaria la qualifica d’impresa sociale. La cooperazione sociale ha ottenuto infatti il riconoscimento automatico della qualifica (a proposito non molti hanno osservato che per effetto di questa scelta il “brand” cooperazione sociale dovrebbe, di fatto, scomparire) e mantenuto importanti prerogative dal punto di vista dei vantaggi fiscali (iva agevolata sui servizi sociali erogati dalle cooperative di tipo A e azzeramento dei contributi previdenziali per i lavoratori svantaggiati inseriti nelle cooperative sociali di tipo B). Ma si è vista anche confinare nei settori di attività strettamente correlati alla propria legge istitutiva di inizio anni ‘90 senza quindi poter operare in nuovi importanti ambiti riconosciuti nella riforma come la produzione culturale, l’agricoltura, il turismo, ecc. Vero è che le cooperative sociali possono comunque raggiungere questi settori “stiracchiando” nello statuto alcune macro aree come ad esempio le attività educative e che l’inserimento lavorativo non ha di fatto preclusioni a livello settoriale, ma va ricordato che in quest’ultimo caso si tratta di attività economiche strumentali rispetto missione che è l’inclusione lavorativa. Altro indicatore della tendenza a salvaguardare le proprie prerogative lo si riscontra nel riconoscimento di diritto rispetto al fatto di garantire la partecipazione dei soci e degli utenti in quanto le cooperative sociali sono cooperative a mutualità prevalente. Insomma per queste organizzazioni non è necessario, come invece per le altre imprese sociali, rendicontare la loro capacità inclusiva nei processi decisionali e organizzativi. Una scelta che avrà certamente una ratio giuridica ma che lascia anche sorpresi considerati gli sforzi fatti in questi anni da molte cooperative sociali di dimostrare, nei fatti, la capacità di essere imprese governate e gestite da una pluralità di stakeholder. In sintesi: molti automatismi al prezzo di alcune importanti preclusioni. Non da ultimo anche gli sgravi fiscali concessi alle imprese sociali di nuova costituzione che pur non essendo ancora attivi, a causa di una colpevole “dimenticanza” da parte degli svariati governi succedutisi in questi anni di inviare una richiesta di via libera alla Commissione europea, potrebbero incentivare la nascita di una nuova generazione d’imprese sociali magari promossa da giovani imprenditori che trovano sempre meno spazio nelle cooperative sociali. Naturalmente queste imprese potrebbero essere anche in forma cooperativa anche se non sfugge che lo sgravio sembra essere tagliato su misura per Imprese Sociali più “attraenti” rispetto al capitale di rischio (non a caso la norma è figlia della decretazione in materia di startup innovative).
Che succederà quindi? Difficile dirlo perché questa scelta conservativa della cooperazione sociale deve tener conto anche delle strategie intraprese da altri soggetti che popolano, almeno potenzialmente, lo spazio dell’Impresa Sociale. In primo luogo il segmento market del Terzo settore che non ha assunto la qualifica d’Impresa Sociale nonostante ne abbia le caratteristiche. Un potenziale stimato in circa 90mila soggetti che però, anche in questo caso, sembra aver optato più per lo status quo che per un piano di sviluppo che faccia ripartire il cantiere dell’Impresa Sociale nel Terzo settore arricchendolo oltre la cooperazione sociale. Organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale, due player importantissimi in tal senso, hanno infatti inserito nel Codice del Terzo Settore una serie di disincentivi all’evoluzione verso assetti marcatamente imprenditoriali, ad esempio prevedendo una lunga serie di eccezioni al carattere commerciale delle loro attività. In secondo luogo si può citare il settore dell’innovazione sociale e tecnologica a scavalco tra profit e non profit. Una minoranza attiva (perché si parla di poche centinaia di unità) che però sembra aver individuato veicoli societari come startup innovative a vocazione sociale e soprattutto società benefit più adatti al suo modello di sviluppo scavalcando così alcuni vincoli ritenuti eccessivi nel modello dell’Impresa Sociale come quello sulla distribuzione degli utili, ma soprattutto sull’inalienabilità del patrimonio che in caso di cessazione dell’attività non può essere redistribuito ai proprietari ma va trasferito ad altra Impresa Sociale o a fondi dedicati (come quelli mutualistici del movimento cooperativo).
In questa situazione che ricorda molto il “surplace” del ciclismo su pista, quando cioè i corridori rallentano per trovare il momento giusto per scattare verso il traguardo, forse il pallino dello sviluppo potrebbe tornare al leader di settore. La cooperazione sociale si appresta ad affrontare nei prossimi mesi la sua prima crisi di sistema perché pesantemente colpita dalla pandemia durante il lockdown e nelle fasi successive. Si dovranno quindi avviare processi di ristrutturazione interna per effetto non solo della crisi attuale ma anche di una tendenza al rallentamento che ha caratterizzato l’evoluzione di molte cooperative sociali negli ultimi anni e che ha visto contrarsi le marginalità economiche e la propensione all’investimento come evidenziano, ad esempio, gli ultimi dati dell’Osservatorio Ubi banca su finanza e terzo settore. La ristrutturazione passerà però non solo dalla “messa in sicurezza” delle organizzazioni, ma anche dall’individuazione di nuovi modelli di social business che in questi anni sono rimasti chiusi nei laboratori di ricerca e sviluppo e che ora potrebbero essere rimessi in campo nel nuovo scenario. Potrebbe trattarsi di una stagione non solo di lacrime e sangue, ma anche di rilancio, magari attraverso le cosiddette “Imprese Sociali ibride” costituite da cooperative sociali utilizzando società di capitali in grado di intercettare risorse per investimenti capaci di sfruttare meglio un’innovazione tecnologica che trova sempre più la sua ragion d’essere, e i suoi risultati economici, attraverso l’impatto sociale. Già nel recente passato la cooperazione sociale ha dimostrato una capacità di sviluppo in tal senso, andando oltre la nicchia. Ora potrebbe rilanciare questa strategia potendo contare su un ecosistema finanziario e di accompagnamento – ben rappresentato dalla recente nascita di fondi equity dedicati – certamente più strutturato anche solo rispetto a qualche anno fa.
Una strategia da leader di settore.
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